Singhiozzavo sulla sua spalla, gli ho singhiozzato tutti i momenti, poi ho detto “Non è colpa tua”, come se potessero esserci dubbi.


Io ho passato il colpo di spugna, lui si è portato via il latte versato ed ha assorbito la fragilità.


La paura è rimasta a me.


Ora quando ho freddo ripenso all’ospedale, a me sdraiata, contratta, inerme… e al mio non saper distinguere il tremore del freddo da quello della paura, se ci penso che ho tremato di paura inizio a mischiare lacrime e latte versato.


Quando dico che sono cose che restano, non voglio tenermi dentro né il ricordo né il dubbio, dico solo che se adesso tremo dal freddo vorrei non ricordare d’aver mai tremato per altro.


Mi dico solo che non si dovrebbe mai tremare per altro.


 


Volevo scriverlo un giorno, scrivere tutto insieme di quei due mesi concentrati per annullare ogni domanda, scrivere una risposta che non prevede altre domande.


 


Non sono mai stata puntuale, per niente, in niente.


Ma biologicamente andavo bene, ero piuttosto brava, mi svegliavo sempre alla solita ora e prendevo sonno sempre alla solita ora, non era un orario socialmente utile ma era utile a me per sentirmi puntuale nei ritardi del mondo.


In questa storia il Tempo mi ruba il ruolo da protagonista e lo fa mascherato dietro ciglia di donna.


 


Mi sentivo vicina alla Luna.


Un giorno la Luna si fece aspettare, quel giorno durò una settimana ed essendo io sempre in ritardo perenne nei confronti del mondo mi sentii di giustificarla ma volevo assicurarmi che stesse bene poiché neppure uno squillo sul cellulare mi fece per informarmi del suo non-arrivo.


La Luna, stavolta Piena di sé neanche un po’.


Mandai lui a cercarla, perché volevo giustificarla ma ero preoccupata, ci avrebbe impiegato tre minuti per dirmi che non sarebbe arrivata, aspettavo dunque quei tre minuti, (Tempo, travestito da mecenate!), invece passarono solo lunghissimi secondi, neppure il Tempo (quello incerto) di farmi costruire una speranza che mi diede uno schiaffo lanciandomi realtà e conseguenze, strano modo per ringraziare chi ti piscia addosso e chiede risposte, no?


Io non lo sapevo che sulla Luna è vietato fare pipì, volevo solo una bugia alla sua conferma.


Non sarebbe arrivata.


 


Andai in camera da letto, provai con l’ironia e creai aspettative e speranze, poi ebbi un rigurgito di latte versato, di labbra tremanti e fui costretta ad annunciare la disperazione senz’arresa, le uniche ad arrendersi furono le lacrime.


Sapersi sola era la cosa più pesante, la cosa che non sapevo gestire era l’evidenza.


La Luna ha anche uno strano modo per avvisarti che sei grande… lo fa col sangue.


In cambio mi diede una notte con Morfeo che arrestò le lacrime portandosele in una stanza poco lontana per non farle sentire orfane, quando lo salutai deve averle liberate perché me le trovai sul cuscino poco distanti incollate persino sui capelli.


 


Seguirono preoccupazioni vane, la vanità della dignità, l’inutile orgoglio, le parole vuote, l’incomunicabilità per la fretta, le notti e i giorni con il chiodo fisso dell’errore e della soluzione.


Li contavo quei giorni, li contavo per vedere quanto e come e se ricostruire il ricordo.


La paura parlò dichiarando morte.


Io non credo a nessun suono emesso, ragionato, decantato dalla paura.


Volevo dirgli di lasciarmi stare quando mi si attaccava addosso e mi respirava nella sciarpa piena d’ansia, restava là come compagna, vedi… non ero sola alla fine… è rimasta fino all’ultimo ad appannarmi gli occhi.


La paura non dà consigli, ma emette sentenze, tiene viva la speranza del capovolgimento di situazione e tiene viva la possibilità della sconfitta, sempre.


La paura mi ha ribaltata, anzi, sdraiata, accompagnandomi, certo.


Come ho fatto a far convivere paura e coraggio?


Esattamente come ho sempre riso e pianto insieme e nessuno ci credeva.


Ho pensato: “Chi trema non ha niente da ridere”, mi sono smentita poi.


Mi sono corretta, il 17 Novembre, chi trema non ha niente per ridere.


 


Quei giorni erano i giorni del nascondere e del prendere permessi al lavoro, erano i giorni in cui si viaggiava in due sulla moto e potevo piangere perché non guidavo io, regalavo pioggia al vento, mi guardavo nello specchietto e mi sorridevo, piangere e ridere insieme, si può fare, ve lo insegno.


Si arrivava nei posti e potevi trovare di tutto, comprensione, ansia, indifferenza, simpatia e distacco, trovai di tutto, avevo fretta di finire perché le attese struggono, si sa.


Entravo sempre da sola, volevo sempre entrare da sola, parlare da sola, ascoltare da sola ed avere meno pubblico possibile quando dicevo che, si, la decisione era quella.


Mi dicevano che avevo altro Tempo, ma non era vero, avrei avuto bisogno di molto più Tempo, non ne avevo affatto, non era il mio, era il loro, era della Vita, mi apparteneva solo in parte, in due parti.


Dicevo: “Ho deciso”, avrei dovuto dire: “Vi insegno a piangere e ridere insieme”.


Ero sola lo stesso anche se cercavo contatti, cercavo coraggio.


Fingevo d’aver paura degli aghi e mi lamentavo per i lividi perché non volevo guardare oltre.


Pensavo: “Ho paura”, avrei voluto dire: “Metteteci un po’ d’amore, datemene un po’”.


Poi tornavo a casa e nascondevo tutto ben bene nell’armadio, dietro agli occhi, sotto al cuore.


Quando risposi alla frase di rito con un “Bene” mi dissero che potevo anche rispondere “Male”, non dissi nulla, decisi di trattenere a stento le lacrime del (sempre lo stesso) latte versato del cavolo e di andarmene in un angolo al buio.


 


Imparai anche a dire cazzate migliori, migliorai nell’arte della menzogna, ma ero imperfetta come al solito, così mescolavo il vero col falso perché avevo bisogno di tirar fuori parte del vero per scagliarla lontana… era così, tutto ciò che volevo lontano mi stava dentro. Dentro. Perfettamente dentro.


 


Venne la fase del dubbio più atroce, del “e se non fosse quello che voglio? E se parlasse per me Paura?”, ma la stessa paura si legava a sé quel dubbio, così per mandarlo via gettai la spugna che in seguito avresti raccolto e passai alla convinzione del “è giusto così, con o senza dubbio, qui ed ora”. Suonava risolutiva, vero?


 


Persi una possibilità ed acquistai un’esperienza non richiesta.


Un buffo baratto. Non credo d’averci guadagnato.


Ma andai lì dicendo che quelle erano le mie condizioni e questo era quello che volevo.


Seguirono domande a cui fui costretta a dare delle risposte.


Nelle stanze bianche dicevo solo la verità, le cazzate le lasciavo per il fuori, tanto lì sarei stata nuda comunque e non ci sarebbero state bugie a proteggere.


Non potevo coprire nulla, né l’imbarazzo né il seno, nelle otto provette di sangue potevano leggere tutto di me, perciò nascondersi era inutile, era tutto là, diviso tra numeri e linee, avevano anche una foto di me, l’ho sbirciata… una foto di me da dentro.


Ho lasciato tutto a loro, ho anche pensato di riportare tutto a casa ma non l’ho pensato in tempo e comunque ho avuto il tempo di ripensarci… vedi, com’è il tempo quando lo declassi a lettere minuscole?


 


Una cosa non avevo considerato, nonostante l’avessi già appurato, sarei stata sola per tutto il Tempo, quel Tempo era mio, per lui avevano riservato altro tempo per l’attesa.


Si vede che ognuno ha il tempo che si merita, a lui toccava quello, a me quello anestetizzato del prima e dopo, quello delle ore un po’ puttane.


 


Mi chiamarono per nome e mi fecero svestire e rivestire, mi dona il verde carta?


Da quella porta in poi c’era la me più esposta.


C’erano anche altre facce esposte, ci raccontavamo i dolori, sorrisi di tensione, voci tremanti, qualcosa in comune oltre la scelta.


Passò meno di un quarto d’ora ma quando tornò la prima scoppiammo tutte in lacrime.


La seconda ero io, mi fecero sedere su una sedia a rotelle, ero vestita di quella carta verde e mi misero una coperta addosso, il percorso fu tutto annebbiato e ora ne sono felice perché lo sono anche i ricordi visivi, non smisi di piangere ma accennai un sorriso all’anestesista, mi accudivano, forse avevano ascoltato la richiesta sull’amore del mio pensiero perché ricordo una mano che mi tamponava le lacrime ed una voce che parlava d’altro tenendomi la mano e ascoltando i singhiozzi.


Da lì in poi mi sono sentita le gambe tremare, freddo e paura, indistintamente. Quel tremare che a volte torna.


Lo facevo lì, tra gente che non avevo mai visto prima, come se potessi sbarazzarmi del carico e da lì, sdraiata, bloccata essere esattamente come mi sentivo. Tremante, piangente, terrorizzata.


Ricordo la voce che mi parlava dolce, i movimenti attorno veloci, il freddo pungente, il ferro… poi la testa leggera e poi devo essermi addormentata mentre dicevo di no.


L’ultima cosa che ricordo con forza è stato il pensiero dell’immagine dei due cuori sovrapposti.


Poi il nulla. Meglio così, forse…


Forse poi ho smesso di piangere perché quando aprii gli occhi ero in un’altra stanza ed ho sorriso all’infermiera, mi ricordo il mio sorriso, forse inappropriato, ed il suo, sconosciuto, ma della persona più vicina che avevo in quel momento, mi appoggiavo al suo volto da infermiera.


C’era ancora freddo. Ce n’è stato ancora tanto.


 


C’è stato il ghiaccio caldo del silenzio, del “è tutto risolto”, dell’impressione di forza vacillante, di come recito bene, di come so recuperarmi, di come confesso per condividere e mi sento sempre sola.


Ci sono state altre bugie, meno alte di un “Bene” come risposta, ma fantasiose come il far finta di partire per un po’ ed essere invece qualche palazzo più in là per lasciarmi il diritto di scoppiare in lacrime e per potermi lamentare un po’.


 


Ho aspettato il ritmo della Luna stronza come mai prima, ho aspettato di riascoltarne la vicinanza ed è successo solo dopo tanti giorni, mi aveva dato una falsa apparizione solo dopo pochi giorni, ho continuato ad aspettare il suo Tempo e poi è arrivato il mio.


La Luna è tornata e l’ho prontamente falsificata con una simile, finta, disegnata, attaccata alla pelle che mi entra fin sotto la pelle.


Così posso tenerla sempre sotto gli occhi, sotto le dita, sotto la pelle e smettere d’aspettarla invano.


Ho la Luna sotto controllo io.


Ho lo stupore dei sorrisi che ho avuto e dei silenzi che ho tenuto.

Commenti

  1. Il tuo parlare, nella sua essenzialità, individua inconsapevolmente punti deboli in chi ti legge, mostrandosi a te senza fronzoli e paraventi.

    Io continuo a confessare per condividere avvertendo ogni volta lo sconforto di mancate o errate risposte. Ma esiste invece chi gode del privilegio di quella condivisione...seppur non immediatamente visibile al nostro sguardo o sentire.

    Un abbraccio non di circostanza.

    PAT

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  2. Da donna..leggo tra le righe..quello che vorresti dire e non puoi... e ti abbraccio ...infinitamente..per il ieri, quello in cui non c'è stato nessuno abbastanza vicino da capire..

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  3. Ciao Cluri, mi ha toccata ciò che hai scritto, mi ha toccata più di quanto pensi, e non sai quanto sia simile a ciò che hai scritto questo momento per me.

    Un bacione ed un abbraccio forte forte

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